Il web è il vero nemico?
“Questo è il mio ultimo post e poi spegnerò il cellulare” queste le parole del youtubers e conduttore del programma “Tu si que Vales”, Francesco Sole, che ha scelto di vivere senza internet. Ma spegnere qualsiasi contatto virtuale è veramente la soluzione per riprendere un contatto reale con la vita?
Questo esperimento è già stato condotto. Nell’ articolo “I’m still here: back online after a year without the internet” Paul Miller ci racconta la sua esperienza di un anno senza internet, senza “navigare sul web” o “controllare email” o cliccare “mi piace” . Il titolo desta subito curiosità; alla luce dei 693 commenti sul sito The Verge (dove l’articolo è stato pubblicato) possiamo anche ipotizzare che abbia raggiunto milioni di visualizzazioni: quanti di noi infatti hanno pensato almeno una volta di spegnere la connessione per un periodo di tempo più o meno lungo?
Viviamo in un’era di interconnessioni che viaggiano rapidamente dove qualsiasi informazione è immediatamente disponibile e si diffonde a macchia d’olio; allo stesso modo gli scambi umani sono agevolati, benchè virtuali, da condivisioni, “mi piace” e messaggi istantanei. Tuttavia quello che costituisce un grande progresso nell’evoluzione tecnologica ha generato quello che volutamente chiamo, in senso generico, malessere.
Questo malessere si esplica in diverse forme ai cui vertici estremi ci sono, da un lato, il non volere assolutamente entrare nel regno dei social e il rifiutare a priori l’evoluzione tecnologica e, dall’altro, la dipendenza tecnologica che negli ultimi anni si è diffusa sempre di più e che, di conseguenza, ha ricevuto vari appellativi specifici, nomofobia, fear of missing out, e così via.
Dall’articolo di Paul ci aspetteremmo di leggere che dopo questo esperimento così drastico, la sua vita sia cambiata in meglio, cercando dunque una conferma di quella che è un’aspettativa molto diffusa ovvero che la qualità della vita migliori privandosi della moderna tecnologia. Eppure dopo un anno offline il ritorno di Paul è stato segnato dalla frase lapidaria che apre così il suo articolo “I was wrong”. Mi sbagliavo.
“Un anno fa ho abbandonato internet. Pensavo mi rendesse improduttivo. Pensavo non avesse senso. Pensavo stesse “corrompendo la mia anima”. Credevo che alla fine avrei risolto i miei problemi. Credevo che avrei raggiunto l’illuminazione. Supponevo che sarei arrivato ad oggi sentendomi più “reale”.
Paul ci racconta di come inizialmente abbia tratto un reale beneficio dalla disconnessione dalla rete: ha letto di più, ha constatato un incremento dell’attenzione, aumento delle attività all’aria aperta, incremento delle capacità di problem solving senza l’ausilio del cellulare, e così via. Si sentiva tuttavia anche un po’ annoiato e un po’ solo.
Andando avanti nella sua personale ricerca, infatti, Paul ha scoperto qualcosa di molto importante: senza internet non sono le questioni pratiche a diventare difficili da risolvere (la mappa cartacea o lo shopping offline fanno ancora il “loro sporco lavoro”) ma, piuttosto, ciò che diventa complicatissimo senza il web è trovare le persone. “Sul web” scrive “è facile rassicurare le persone che sei ancora vivo e in salute, è facile collaborare con i colleghi di lavoro, è facile essere parte di una società.”
La tecnologia ha, infatti, permesso di creare una rete interpersonale, non solo tra informazioni, ma soprattutto tra persone, colleghi, amici vicini e lontani.
Tuttavia la possibilità di essere sempre connessi, di poter comunicare con chiunque in qualunque momento ha danneggiato il tempo, un tempo che non è il tempo fisico materiale, il tempo segnato dalle lancette dell’orologio ma tempo psichico. La connessione virtuale ha corrotto il tempo dell’attesa, quello spazio vuoto dalla presenza dell’ Altro in cui è possibile strutturare desideri, immaginazione e creatività, in un gioco a due di presenza-assenza. Così l’iper connessione virtuale, come ogni eccesso, ha prodotto il suo opposto, la dis-connessione: si è più distratti, è diminuita la capacità di attenzione selettiva e sostenuta, ed è aumentata l’ansia d’attesa.
In un epoca di messaggi istantanei con “spunte blu” (che ti dicono se l’altro ha ricevuto il messaggio e se l’ha letto) siamo chiamati a rispondere in una finestra temporale sempre più stretta e lo stato d’urgenza psichica (“devo rispondere”) può generare uno stato ansioso e produrre un movimento di contro-dipendenza dai quei contatti “virtuali”, da una richiesta costante di risposta, che induce infine al desiderio di essere offline.
Essere offline è prima di tutto uno stato di coscienza necessario. Non il banale “spegnere” il cervello ma la capacità di stare in assenza-di.
C’è molto della realtà nella virtualità e molto della virtualità nella realtà dice Nathan Jurgenson, teorico del network.
Infatti esiste un parallelo tra virtuale e reale che con l’evoluzione tecnologica sta diventando sempre imponente: i rapporti virtuali sono allo stesso tempo caratterizzati da assenza (perché il rapporto è filtrato da uno schermo) e presenza (perché la comunicazione si sviluppa comunque tra due o più individui), come d’altra parte accade nei rapporti reali dove a fare da filtro non è uno schermo ma la vicinanza o lontananza nello spazio.
In questa rete di interconessioni reali/virtuali si gioca una partita fondamentale, il dualismo assenza-presenza, il gioco in cui la mente si struttura e in cui si saggiano i confini tra il Sè e l’altro da Sè, tra l’individuo e l’Altro, e in cui si struttura il tempo della mente.
La virtualità viene percepita come pericolo proprio perché, come dicevo prima, il tempo è messo in discussione e proprio per questo l’individuo si sente privato dei propri confini.
In quest’ottica è ovvio che la fuga da internet venga considerata come la panacea delle ansie generate dalla tecnologia e l’unico modo per rinconquistare la fantomatica connessione reale con il mondo.
Ma Paul Miller sfata questo mito e scrive che il suo “piano era abbandonare internet e dunque trovare il “vero” Paul ed entrare in contatto con il mondo “reale”, ma il vero Paul e il mondo reale sono già inestricabilmente connessi ad internet. Con questo non voglio dire che la mia vita non è stata diversa senza internet, solo non era la vita reale.”
Dunque ci lascia intendere che il problema non è tanto nel web ma piuttosto nell’incapacità dell’individuo moderno di farne un uso corretto. Non è la connessione a metterci ansia bensì il sentirci iperconnessi. Ricordiamoci sempre che quando usiamo un cellulare o un computer restiamo pur sempre esseri umani in carne e ossa che occupano il tempo e lo spazio. E anche quando facciamo una passeggiata, il web influenza il nostro modo di pensare: “scatto una foto da condividere con gli amici online?”
Alessandra Notaro
Riferimenti sitografici:
www.theverge.com/2013/5/1/4279674/im-still-here-back-online-after-a-year-without-the-internet
Riferimenti umanografici:
Maestri e Cari, il dialogo e il confronto.
Nessuna risposta.
[…] Fuori lista, ma pur sempre un must da non perdere è Black Mirror. La serie antologica che ha come filo conduttore la riflessione sull’impatto della tecnologia nelle nostre vite, questa serie televisiva non può non parlare di psiche umana. Cosa siamo disposti a fare per essere accettati socialmente, per non affrontare la perdita di qualcuno, per essere al sicuro? Ogni episodio cerca la risposta ad un quesito, ad un timore, ad un desiderio portato alle sue estreme conseguenze con l’ausiolio di una tecnologia che tutto può. Scopriamo che la tecnologia tanto potente è pur sempre uno strumento, ma nelle mani dell’uomo… Riportandoci ad un interrogativo affrontato anche nel nostro piccolo Salotto Il web è il vero nemico? […]