L’odio chiama L’Odio
“Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di 50 piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio per farsi coraggio si ripete: fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene. Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio.”
Le tragiche vicende di cronaca degli ultimi mesi spesso mi hanno fatto pensare al film L’Odio e ad una storiella chiave raccontata al suo interno.
L’Odio è un film del 1995 diretto da Mathieu Kassovitz vincitore del premio per la miglior regia al 48º Festival di Cannes. Il film in bianco e nero è ambientato in un quartiere periferico di una città francese come tante, fatto di miseria, etnie più o meno assortite e criminalità di vario genere, dove soffia il vento della rivolta. L’occasione che la fa esplodere è il brutale interrogatorio a cui la polizia sottopone un ragazzo di sedici anni. Un’escalation di odio, risentimento e vendetta percorre tutta la vicenda come in caduta libera da quel palazzo di 50 piani che apre il film.
“L’odio attira l’odio” dirà uno dei tre protagonisti durante un’animata discussione che vuole sedare lo spirito vendicativo di un giovane Vincent Cassel. E proprio in quel momento esce dalla porta del bagno, un signore che racconterà loro una storia, una parabola che alla fine lascerà interdetti i tre giovani.
– Ci si sente meglio dopo una bella cacata. Voi credete in Dio? Non bisogna domandarsi se si crede in Dio ma se Dio crede in noi. Avevo un amico che si chiamava Grumvalski, siamo stati deportati insieme in Siberia. Quando ti portano in Siberia nei campi di lavoro, si viaggia nei carri bestiame e si traversano steppe ghiacciate per giorni e giorni senza vedere anima viva, ci si scalda l’uno con l’altro, ma il problema è che per liberarsi, per cacare nel vagone non si può e le sole fermate sono quando bisogna mettere l’acqua nella locomotiva. Ma Grumvalski era parecchio timido e già quando dovevamo lavarci in gruppo si sentiva molto a disagio, io lo prendevo un po’ in giro per via di questa storia, insomma il treno si ferma e tutti noi ne approfittiamo per andare a cacare dietro al vagone; ma io gli avevo talmente rotto le scatole al povero Grumvalski che lui decide di andarsene un po’ lontano, insomma il treno riparte, tutti saltano su al volo perché il treno non aspetta, il problema è che Grumvalski che se n’era andato via dietro a un cespuglio, stava ancora cacando, allora lo vedo correre fuori da dietro il cespuglio, reggendosi con le mani i pantaloni per non farli cadere e tentando di raggiungere il treno. Io gli tendo la mano, ma come lui mi tende le sue deve mollare i pantaloni che gli cadono alle caviglie, ritira su i pantaloni e si rimette a correre e i pantaloni gli cascano tutte le volte che Grumvalski prova a tendermi le mani…
– Allora insomma che è successo?
-Niente Grumvalski è morto di freddo.
Cosa è successo ai personaggi della storia? Qual è il senso?
L’anziano signore racconta con onestà il suo ruolo nella vicenda: prendendo in giro il timido Grumvalski lo ha indotto involontariamente ad allontanarsi dal gruppo, allontanamento che lo ha portato alla sua tragica fine.
Dunque è il gruppo che allontanando i suoi elementi ed escludendoli li fa morire? Forse.
Ricordiamo che il motore della storiella dell’anziano ebreo è il bisogno viscerale, una necessità fisiologica che vuole essere evacuata e dalla quale si trae godimento (“ci si sente meglio dopo una bella cacata”, esordisce il signore). E allo stesso modo un incontenibile Vinz (Vincent Cassel) chiede vendetta, chiede di evacuare quell’odio e quel risentimento stratificati e alimentati forse da sentimenti di rivalsa nei confronti di una società in bianco e nero senza sfumature, in cui da una parte c’è il “noi” e dall’altra il “voi”.
La violenza come atto estremo di protesta contro la marginalità, contro un destino di invisibilità e di indifferenza istituzionale.
In un sistema diviso in cui l’azione di una parte comporta il disagio dell’altra e viceversa, il sistema è destinato a fallire.
“Ancora una volta l’Occidente si trova confrontato al problema della marginalità sociale” scrive Massimo Recalcati, “che caratterizza il profilo degli ultimi attentatori e che, respinta dagli identikit sociologici dei professionisti del terrore (giovani inseriti, universitari, borghesi, ecc), ci ritorna addosso come un flash che non possiamo più ignorare. Allo stesso modo la giovane età di questi assassini non può non segnalare un’altra grave emergenza: come ridare senso alla vita dei nostri figli, come ridare loro futuro, speranza, avvenire, fiducia, lavoro?[…]
Il gesto che genera terrore può rendere infatti una vita anonima, una vita che viene finalmente nominata, ricordata, promossa agli onori della cronaca, capace di incidere il suo nome nella storia. In questo modo delle esistenze che si percepiscono prive di senso, superflue, messe ai margini dalla società, fallite, incapaci di affermarsi, provano allucinatoriamente a dare un senso alla loro vita. Sentendosi vittime del sistema che le rifiuta colpiscono deliberatamente quel sistema […].”
Un appello che chiede di essere accolto, un gesto disperato frutto di uno scollamento dalla realtà e dall’Altro richiede tra le tante cose anche uno sforzo da parte nostra e una responsabilità individuale.
Ciascuno di noi è chiamato ad aprirsi e a coltivare una sensibilità e una qualità nuova da estendere alla propria comunità per comprendere, affrontare e trovare un senso a questo nuovo presente.
Quella stessa qualità che ci permette di negoziare con pazienza, intuito e temperanza problemi centrali nelle nostre relazioni con gli altri e con noi stessi. Quella stessa sensibilità, detta anche Intelligenza Emotiva, di entrare in risonanza e cogliere cosa si agita al di sotto della superficie del prossimo ora andrà estesa alla comunità al fine di costruire diverse chiavi di lettura ed arginare il contagio del terrore sulle menti fragili in cerca di un senso.
Alessandra Notaro
Film consigliato:
L’Odio: http://amzn.to/2eKCKpY
Riferimenti sitografici
Trailer de L’Odio: https://youtu.be/Ts4f3OInRPU
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2016/07/24/il-contagio-del-terrore-sulle-menti-fragili-in-cerca-di-un-senso04.html?ref=search