Lettera ad una Nazione di un certo P.P. Pasolini
Ci siamo. Domenica 4 marzo si vota. Ed allora c’è da riflettere, ponderare.
Il voto contiene una sacralità tutta sua: confluisce in esso la volontà del singolo per ascendere a decisione condivisa. Eppure questa volta ne sento contenere personalmente anche uno struggimento particolare, probabilmente i fatti violenti che stanno connotando questi ultimi tempi, le contrapposizioni così fini a se stesse ed allo scontro ma senza un perno di coscienza forte che le connoti, le strumentalizzazioni continue di tante cose (anche del dolore stesso dell’essere umano)…insomma un panorama variegato della dimenticanza e della superficialità –che sono a volte sinonimi- dell’essere umano che non può che ricordare questi versi affranti di Pasolini.
Affranti al punto tale che il Poeta si augura che la Terra dove è nato sprofondi, scomparendo inghiottita dal mare che la circonda.
Quelli che potrebbero sembrare a prima vista degli insulti al luogo dove si è nati, sono in verità delle preghiere di dolore, come ad implorare un cambiamento, una redenzione, una resurrezione.
Significativo che Pasolini li scriva nel pieno del boom economico, disgustato dalla classe borghese preda dell’ubriachezza consumista; ma certo sappiamo che fu vero profeta e che scorse, con la sua vista lucida, la realtà di quanto lo circondava e di tante cose che si sarebbero pienamente verificate anche dopo vari decenni. Questa Poesia fa parte della sezione Nuovi epigrammi (1958-1959) che troviamo nella raccolta del 1961 La religione del mio tempo.
Altra cosa da sottolineare che Pasolini non usa mai il nome Italia ma nazione, per rivolgersi a chi è nato in certi confini e non a chi ne nutra appartenenza. Infatti esprime il disgusto di Pasolini per certa classe dominante.
Ovviamente fu frainteso ed attaccato dai fascisti ed in Vie nuove, sempre nel 1961, ne preciserà il concetto lui stesso così:
I fascisti rimproverano per esempio a una mia poesia [Alla mia nazione] di essere offensiva alla patria, fino a sfiorare il reato di vilipendio. Salvo poi a perdonarmi – nei casi migliori – perché sono un poeta, cioè un matto. […] Ecco cosa succede a fare discriminazione tra ideologia e poesia: leggendo quel mio epigramma solo ideologicamente i fascisti ne desumono il solo significato letterale, logico, che si configura come un insulto alla patria. Ma poi, rileggendolo esteticamente, ne desumono un significato puramente irrazionale, cioè insignificante. In realtà il momento logico e il momento poetico, in quel mio epigramma coesistono, intimamente e indissolubilmente fusi. La lettera dice, sì: la mia patria è indegna di stima e merita di sprofondare nel suo mare: ma il vero significato è che, a essere indegna di stima, a meritare di sprofondare nel mare, è la borghesia reazionaria della mia patria, cioè la mia patria intesa come sede di una classe dominante, benpensante, ipocrita e disumana.
Ecco questi versi saldi e incisivi e buon voto a tutti!
Alla mia nazione
Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico,
ma nazione vivente, ma nazione europea:
e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!
Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
che il tuo male è tutto il male: colpa di ogni male.
Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.
Laura De Santis
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