I muri si abbattono con la gentilezza, ce lo insegna Tracy Chapman
Può capitare che gli album di debutto siano il grado massimo raggiunto da un Artista. Probabilmente perché contengono l’innocenza e la personalità prorompente di chi si affaccia al nuovo. Non è sempre così ma molto spesso, come nel caso di Tracy Chapman, di cui vi parlo oggi.
Nel 1988 esce il suo primo album omonimo che contiene 11 tracce incredibili, nette in bellezza e qualità. La scia in cui possiamo incanalarla è quella del cantautorato di Dylan e Mitchell, fermo restando ovviamente che ha una sua propria identità inconfondibile.
Tracy nasce a Cleveland, una piccola cittadina in Ohio, dove ancora oggi vive, anche questa scelta ci indica il suo carattere timido e schivo.
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Va a Boston dopo aver vinto una borsa di studio per la Tufts University di Boston, dove si specializzò in Antropologia e Cultura Afroamericana.
Sin da piccola aveva iniziato a studiare da autodidatta ogni strumento le capitasse a tiro, ma lì iniziò ad esibirsi ogni sera, dopo gli studi universitari, nei vari coffee house di Boston, finché durante una di queste esibizioni venne notata da Brian Koppelman, che la raccomandò al padre Charles della casa discografica indipendente Sbk e al produttore di Joni Mitchell, Elliot Roberts. E così Tracy Chapman riuscì a firmare un contratto per l’Elektra e a pubblicare l’album di debutto di cui parlavo.
Tracy Chapman proveniva da una famiglia povera ed aveva potuto studiare grazie alle borse di studio.
In “Fast Car”, per esempio, affronta i problemi tipici dell’America nera di periferia: disoccupazione e difficoltà ad avere i sussidi per vivere. Lo fa con la sua voce delicata e senza la rabbia e l’aggressività che ci si sarebbe aspettato nell’affrontare certi temi. Lo stesso accade per “Talkin’ About The Revolution” o per quel racconto di violenza familiare di “Behind The Wall”, cantato a cappella e con calma intensità. La Chapman divenne punta di diamante fra tutti gli artisti socialmente impegnati, fino a cantare al Tour Human Rights di Amnesty International e al Nelson Mandela Freedomfest, nel 1988 e 1989.
In questi tempi ‘particolari’ in cui la dimenticanza dell’uguaglianza fra ogni essere umano si vorrebbe essere rimossa da parte di alcuni non possiamo non citare questi versi di Across the Lines:
“Across the lines / who would dare to go / under the bridge / over the tracks / that seperate whites from blacks…’/
’Attraverso i confini/ chi oserebbe andare / sotto il ponte / sopra i binari / che separano i bianchi dai neri…”
Questo album non può mancare tra i vostri preferiti. Stiamo parlando davvero di storia della Musica.
Laura De Santis