Dove nasce il razzismo?
L’attuale momento storico pone l’accento su fantasmi che credevamo scomparsi: ondate di razzismo, pregiudizi e discriminazioni. La storia dell’evoluzione umana insegna che purtroppo l’uomo ha sviluppato la tendenza ha suddividere il mondo in categorie e a temere ciò che è considerato diverso.
Secondo la Psicologia Sociale, però, esistono modi per poter sconfiggere questi fantasmi.
È un dato di fatto che per alcuni di noi, questo periodo storico sia un momento molto difficile.
Chi, come me, è stato cresciuto secondo ideali di libertà, rispetto e cura per tutti, al di là delle differenze e delle appartenenze, sente il peso del razzismo, dei pregiudizi e delle discriminazioni dilaganti.
“Com’è possibile tutto questo?” ci si chiede.
Purtroppo la mia risposta sarà un po’ cinica: “siamo ancora branco di scimmie poco pelose”.
Il corso dell’evoluzione ha insegnato all’uomo a suddividere la realtà in categoria e a dar loro delle etichette. Ne andava della sopravvivenza stessa.
Inoltre la storia stessa dell’uomo ha fatto si che si imparasse a temere ciò che era al di fuori quelle categorie riconosciute. Tutto ciò di diverso, insolito e lontano poteva rappresentare una minaccia alla vita.
Questa tendenza che è diventata un istinto naturale per piante, animali o eventi naturale, ha coinvolto anche il mondo sociale.
Pensate all’uomo di Neanderthal e come avrà temuto il Sapiens.
Istintivamente l’uomo suddivide il mondo in Noi e Loro, in chi fa parte del mio gruppo e chi no.
Ci siamo Noi e ci sono Loro.
Io appartengono a Noi e, se Io voglio proteggermi, devo proteggere il gruppo dagli altri.
Gli altri sono differenti da Noi, non hanno niente in comune con Noi, sono pericolosi.
Si passa così dalla categorizzazione agli stereotipi, da questi ai pregiudizi, fino ad arrivare alla vera e propria discriminazione.
Lo Psicologo sociale Hernri Tajfel con una serie di esperimenti ha dimostrato che le persone sistematicamente tendono a favorire il proprio gruppo e applicare pregiudizi e categorizzazioni ai danni di un altro gruppo.
Noi siamo il gruppo migliore, perché se lo siamo, lo sono anche Io.
È importante per la mia identità.
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L’esperimento più famoso di Herrni Tajfel è l’esperimento dei gruppi minimi.
I partecipanti venivano assegnati a due gruppi differenti sulla base della preferenze tra i quadri di Klee e quelli di Kadinskij.
I soggetti, però, non sapevano assolutamente chi fossero i membri dell’altro gruppo.
Ad ogni partecipante singolarmente veniva chiesto di suddividere una somma di denaro tra i mebri del proprio gruppo e gli altri. Nonostante non si conoscessero e non sapessero chi faceva parte del gruppo, nonostante non avessero notizie in merito a interessi, tratti o caratteristiche in comune fra i membri (a parte la preferenza per un pittore o l’altro) si favoriva il più possibile il proprio gruppo.
Da subito il fantomatico Noi era genericamente e inconsapevolmente preferito. Noi meglio che loro.
Sempre Tajfel ha evidenziato come si tenda a considerare i membri del proprio gruppo più simili tra loro di quanto non lo siano in realtà, e i membri degli altri gruppi molto più diverse da sé rispetto a quanto davvero siano.
“È possibile una soluzione?”.
Ci si chiede.
Questa volta la mia risposta non sarà altrettanto cinica:
“esistono delle possibilità per ridurre pregiudizi, categorizzazioni e discriminazioni”.
Una delle possibilità è quella proposta da Wagner, ovvero attivare una fase di monitoraggio sui pensieri in cerca di contenuti discriminatori e poi operativamente trovare nuove conclusioni a quelle considerazioni.
Ad esempio, siete in auto e vedete una donna bloccare il traffico con una guidata incerta. In modo automatico il monitoraggio segnalerà se starete pensando “Ecco una delle tante donne incapaci al volante”. Una volta segnalato, si opera sul pregiudizio, considerando, per esempio, quante altre volte a bloccare il traffico è stato un uomo. A questo punto sarà chiaro che a bloccare il traffico non sono solo le donne.
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Quando si tratta di discriminazioni e conflittualità fra gruppi, una delle possibilità d’intervento è dare ai gruppi un obiettivo comune, raggiungibile solo con la partecipazione di tutti.
Come ha dimostrato lo psicologo sociale Muzafer Sherif, se due gruppi ostili vengono posti in queste condizioni, inizieranno a cooperare, riducendo conflittualità, aggressività e favoritismo verso il proprio gruppo.
Gordon Allport ha ipotizzato che lo scarso contatto fra gruppi differenti fa sì che vi sia scarsa conoscenza e che proprio da questa ignoranza si sviluppino pregiudizi e discriminazione.
Promuovendo il contatto fra i membri di gruppi diversi, questi avranno la possibilità di vedere come le differenze non sono poi così accentuate e come molti loro pregiudizi siano infondati.
Attraverso il contatto si promuovono tolleranza e rispetto reciproco.
Ancora un’altra strategia è quella direttamente connessa con la teoria di Tajfel: ricategorizzare se stessi. Darsi nuovi significati: “appartengo ha una categoria più vasta; sono simile a molte più persone di quanto credo; tra me e te ci sono delle somiglianza”.
Un ultimo consiglio è quello di allenare l’empatia.
Se da un versante la nostra tendenza naturale è quella di avere un atteggiamento negativo, escludere ed essere ingiusti verso chi non appartiene a questo fantomatico Noi; dall’altra parte ciò che ci ha permesso di diventare i sapiens che siamo è stata la capacità di rispecchiarci, di capire quello che prova l’altro.
Se è possibile comprendere quali sentimenti prova un’altra persona, ci si può sentire più vicini, più comuni. Se è possibile sentirsi così uniti, allora è possibile decidere che forse esiste un Noi più grande: siamo parte di un immenso mare di umani, come piccole goccioline così uguali eppure ognuna così unica.
Valentina Freni