La valigia dell’emigrante: quando il cuore non entra in valigia
Quale che sia il luogo dove nasciamo e cresciamo, fosse anche il più orrido tra gli orridi, lo amiamo.
L’essere costretti a lasciarlo comporta una lacerazione senza rimedio, che accompagnerà il resto dell’esistenza, obbligando alla malinconia. Il cuore resta dove sono le radici, come scrive Rodari in questi versi immensi.
Lo chiamo il Mago, questo Poeta delicatissimo, che ha fatto della semplicità il suo regno.
Ecco che ci rende l’immagine dolente di chi si allontana e vede farsi sempre più piccino, fino a scomparire, il suo luogo di nascita. L’essere umano è da sempre guardingo e sulla difensiva quando si affaccia il cosiddetto ‘diverso’ che non è poi che l’altro da sé.
Complice la manipolazione dei media, asserviti a poteri più alti, in questa nostra contemporaneità si è giunti ad utilizzare l’altro per depistare l’attenzione da problemi ben più gravi, quali manovre economiche ingiuste per esempio, e di conseguenza alla vergognosa campagna volta a far diventare lo ‘straniero’ un bersaglio delle proprie frustrazioni e meschinità d’animo.
Un proverbio dei Navajo (una tribù dei Nativi Americani, che sono un mio grande riferimento etico) dice che se il Grande Spirito avesse voluto che noi vivessimo sempre nello stesso posto, avrebbe lasciato fermo il mondo.
Sentire il buco nell’anima di chi è costretto a spostarsi è necessario per potersi dire appartenenti alla grande famiglia umana
Non è grossa, non è pesante
la valigia dell’emigrante…
C’è un po’ di terra del mio villaggio
per non restare solo in viaggio…
Un vestito, un pane, un frutto,
e questo è tutto.
Ma il cuore no, non l’ho portato:
nella valigia non c’è entrato.
Troppa pena aveva a partire,
oltre il mare non vuol venire.
Lui resta, fedele come un cane,
nella terra che non mi dà pane:
un piccolo campo, proprio lassù…
ma il treno corre: non si vede più.
‘La valigia dell’emigrante’, Gianni Rodari_dalla raccolta “Il treno delle filastrocche” del 1952
Laura De Santis