Come siamo arrivatə a celebrare il Disability Pride Month?

Come siamo arrivatə a celebrare il Disability Pride Month?

DISABILITY PRIDE MONTH

In occasione del Disability Pride Month ripercorriamo il percorso che ha portato da un approccio medico alla disabilità, quello che dice alla persona “la tua condizione medica è il tuo unico problema, ora ti faccio diventare sano”, a un approccio bio-psico-sociale, volto a promuovere benessere, salute e partecipazione di tutt*, senza discriminazioni e barriere.

Nel 1990, negli USA, nasce il Disability Pride Month dopo l’approvazione dell’Americans with Disabilities Act, ma verrà riconosciuto e celebrato in Italia soltanto 25 anni dopo, nel 2015.

In questo lasso di tempo, la riflessione intorno alla disabilità ha subito una trasformazione che rientra in un più grade percorso di evoluzione iniziato già nel dopoguerra.

Sono anni in cui si raccolgono le macerie di un mondo distrutto e nel quale si fa strada una riflessione sulle conseguenze devastanti della guerra, comprese le conseguenze sui corpi delle persone.

Il principale modo di considerare la disabilità era nei termini di una distanza (quasi incolmabile) tra sano e “malato”, che si riflette nelle scelte politiche e in tutto il contesto quotidiano.

Questi vecchi schemi avevano come focus le malattie e le loro cause, traducendosi in interventi medicalizzanti con l’obiettivo di accorciare il divario e rendere sani gli individui.
Questo approccio è come se dicesse alla persona: “la tua condizione medica è il tuo unico problema”.

Sulla scia di questo approccio, nel 1970 viene pubblicato per la prima volta l’ICD (Classificazione internazionale delle malattie) da parte dell’OMS. Questo tipo di classificazione delle malattie e delle loro cause, benché fondamentale per fare una diagnosi, ha numerosi limiti.
Focalizzarsi sui fattori eziologici non migliora il benessere delle persone, né ne aumenta diritti e tutele.

Nel 1980 l’OMS associa all’ICD un’appendice, l’ICIDH, nella quale vengono classificate le conseguenze delle malattie. 

Questa pubblicazione sancisce il passaggio dal modello medico al modello funzionale. Il focus passa dal concetto di malattia a quello di menomazione, disabilità ed handicap.

Dove per menomazione si intende la perdita o un’anomalia strutturale/funzionale di un organo o di un apparato; per disabilità si intende la limitazione o la perdita della capacità di fare qualcosa a seguito della menomazione; per handicap si intende lo svantaggio che limita o impedisce il raggiungimento di una condizione sociale “normale”.
Menomazione, disabilità ed handicap vengono proprio descritti come una sequenza lineare.

Questo approccio è come se dicesse alla persona: “la tua inabilità a fare X è il problema”.
Dove x può stare per salire le scale, scrivere ecc. ecc. 

Si mette l’accento sulla discrepanza tra le competenze e le capacità reali e le aspettative sociali di efficienza.
Anche la famosa Legge Quadro 104/92, nelle sue  prime formulazione ne è influenzata (N.B. ciò non toglie fu una svolta epocale nel panorama italiano).

Negli anni 90, l’OMS commissiona uno studio di revisione delle classificazioni che porterà alla pubblicazione nel 2001 dell’ICF (Classificazione internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute).

L’ICF si pone in una prospettiva bio-psico-sociale che mette al centro l’individuo, il suo funzionamento inteso come partecipazione attiva alla vita sociale e lavorativa, la sua salute. 

Il funzionamento e la partecipazione alle attività quotidiane sono influenzati non soltanto da fattori organici, ma anche e soprattutto da fattori contestuali, di tipo ambientale e di tipo personale (vissuti emozioni, convinzioni ecc.). 

L’ambiente di riferimento non è solo quello fisico, ma è fondamentale l’ambiente sociale, con le sue condizioni, i suoi modi di intendere la realtà e di progettarla.

Non ci sono solo risposte medicalizzate ma soprattutto risposte comuni, che interessano tutte le varabili e i settori di vita degli individui.

Questo approccio dice alla persona: “le scale e le barriere architettoniche sono il problema!”

Questa nuova attenzione e sensibilità ha permesso di pensare a come riprogettare spazi fisici, sociali e mentali per fare in modo che siano accessibili a tutt*, che siano inclusivi e non limitino le possibilità di esperienza e crescita.

Ma non siamo al punto di arrivo!
C’è ancora molta strada da fare e molte battaglie per riuscire ad abbattere ogni tipo di barriera, soprattutto quelle abiliste, riappropriarsi del proprio orgoglio.

Valentina Freni

 

Rispondi